domenica 26 febbraio 2012

don Francesco Di Nucci

don Francesco Di Nucci

Sacerdote in eterno


S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello
Teano, 17 febbraio 2012
Chiesa Cattedrale
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Saluto iniziale

Saluto con tanto affetto Sua Eccellenza Monsignor Dal Covolo, Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateranense, ma direi soprattutto magnifico amico e fratello nell’Episcopato: la sua presenza impreziosisce il diadema della nostra piccola ma preziosa Chiesa di Teano-Calvi che questa sera presentiamo al Signore, pur nella nostra povertà, ma nella magnificenza della grazia, su cui sta per essere incastonato un nuovo diamante. Francesco, diacono, nasce presbitero sotto i nostri occhi. Per la verità sarebbe meglio chiudere gli occhi durante questa celebrazione, perché si vede meglio col cuore. Ci sono momenti nei quali i sensi rimandano ad altro: guardiamo i segni, ma oltre i segni c’è un oceano di grazia che invade una persona, che questa sera è Francesco. Lo accompagniamo con la nostra preghiera trepidante e col nostro affetto. Dopo i giorni di grande freddo, fiorisce un mandorlo nella nostra Chiesa. “Cosa vedi?” - dice Dio al giovane Geremia. Ed egli risponde: “Vedo un mandorlo”, perché il profeta è una sentinella e anche il prete lo è. Fiorisce un mandorlo: si chiama Francesco. I sacerdoti, in questa celebrazione, rivivono la grazia del loro presbiterato, della loro Ordinazione che ha una sua reviviscenza: auguro loro di poterla vedere e accogliere a piene mani. E poiché ci troviamo sempre incerti e poveri davanti al Dio che ci chiama, chiediamo umilmente perdono dei nostri peccati.

LETTURE
Is 6, 1-8
Sal 62
Eb 5, 1-10
Gv 6, 1-15


Omelia

Eccellenza Reverendissima, carissimi presbiteri, diaconi, seminaristi, ministranti, religiosi e religiose, fratelli e  sorelle nel Battesimo,
nella processione introitale, prima di uscire, Sua Eccellenza Monsignor Dal Covolo mi diceva: “Sono bei momenti per la vita di un Vescovo”. Effettivamente il momento dell’Ordinazione Presbiterale costituisce la più grande consolazione per un Vescovo, ma spero di condividere con voi tutti, presbiteri, diaconi, laici, religiosi e religiose, questa gioia. Oggi, come ho già detto all’inizio della celebrazione, la nostra Chiesa si impreziosisce di un nuovo presbitero e non si tratta solo di una grazia: per i prossimi anni è assicurato pane, grazia, perdono, direzione, consolazione a tanti nostri figli e figlie; dovreste rallegravi con me in questo momento, perché in Francesco presbitero noi vediamo, intravediamo, anche noi più avanti negli anni, l’avvenire della nostra Chiesa. C’è ancora futuro.
Noi abbiamo bisogno in questo momento - ne abbiamo sempre bisogno, ma in questi tempi calamitosi particolarmente - di segni di speranza, dal momento che i segni di delusione, di recessione economica sono tantissimi. Oggi noi siamo invitati a guardare con speranza al nostro futuro: c’è ancora chi dice sì a questo progetto meraviglioso e tremendo che è l’essere investito della potestà stessa di Gesù, sommo ed eterno Sacerdote, a beneficio dei fedeli che lo vogliano.
Francesco vive in questa celebrazione un momento che divide in due definitivamente la sua vita, perché tutti i giorni che vivrà in seguito avranno il timbro, la grazia, la luce, la forza di questo momento. È come - l’ho detto già in altre Ordinazioni - se in certi momenti si dessero convegno tutti i giorni passati e tutti i giorni futuri in una densità che è difficile esprimere, ma che, con i sensi della fede, ciascuno di voi può intendere, nel senso che di qui, da questo momento, nasceranno non solo per Francesco, ma per tutti coloro che usufruiranno del suo Ministero, miracoli che noi ovviamente non riusciamo a vedere, ma che Dio sa e che si radicano e prendono senso, forza e direzione da questo momento.

La Liturgia della Parola ci ha preparati e ci prepara a questo momento. Tra le Letture che Don Francesco ha scelto, mi soffermo in particolare sulla prima e sul Vangelo. Nella Prima Lettura ci confrontiamo con una delle chiamate più luminose e, se il termine non vi appare negativo - per me è positivo -, più “barocche” tra i racconti di vocazione, perché abbiamo un bambino (pensate ai bambini che sono qui e che magari faranno un grande atto di pazienza in queste due orette che stiamo insieme) o anche un ministrante, Annibale per esempio, che vedo qui, un ministrante di Pietravairano, che è preso dal luccichio, dai profumi dell’incenso, dal suono delle trombe, dal suono dell’organo, dalle voci del coro, ed entra in una dimensione nuova. Dev’essere stato così l’evento che poi, nel tempo, ha dato forma a questo racconto dove ci sono simboli: Dio che siede su un trono altissimo, la corte celeste riunita, ci sono sfavillii, scintillii, come in questa celebrazione. Ovviamente Annibale, che adesso ho scelto come mia “cavia”, davanti a tutto questo splendore si sente ancora più piccolo - quanti anni hai, Annibale? Tredici… - e dice: Ma sono degno d’essere qui? Partecipo nella Chiesa Cattedrale e non nella chiesa San Giovanni, che ha bisogno d’essere resa più bella… Sto qui in prima fila, al primo banco, e tutto questo è troppo per me!
Nasce un senso di indegnità: io appartengo ad un popolo dalle labbra impure, vengo da Pietravairano, e allora c’è un rito di purificazione che è questo carbone ardente (ovviamente è un simbolo, Annibale, non ti preoccupare, non accadrà per te), preso dal braciere che arde e dove vengono versati i profumi, gli aromi, davanti al trono di Dio, e questo carbone ardente fa un po’ da ponte tra l’eterno e il tempo, giungendo fino a questo giovane che si sente fuori luogo. Io spero che anche voi vi sentiate fuori luogo: Ma com’è possibile che sono qui? Com’è possibile che questo miracolo avvenga sotto i miei occhi?
La cosa più bella di questo racconto è che a un certo punto si crea un’emergenza nella mente di Dio, in questo sovrano che interroga i suoi saggi: c’è una missione speciale da compiere, Annibale, c’è qualcosa di grande da fare e nessuno si fa avanti. Questa è una cosa terribile: nessuno manifesta una disponibilità. Allora, proprio il piccolo e giovane “bambino-profeta” dice: “Eccomi, manda me”. Forse questa cosa, Annibale, gli sfugge dal cuore, come per te, mentre lo dice si pente d’averlo detto… Cosa posso dire io davanti a questa corte? Possono parlare i santi, possono parlare gli angeli, possono parlare quelli più avanti di me, più saggi di me, più santi di me… Ma si rende disponibile un ragazzo.




Come già per l’Ordinazione Diaconale, ma ancora di più questa sera, guardando il volto di Francesco molti di voi hanno un tuffo al cuore, a dire: “Ma è così giovane…”. Francesco mi ha rimproverato per sei mesi d’avergli dato un anno in più all’Ordinazione Diaconale, allora lo dico precisamente: ha 26 anni e qualche mese. Si può a questa età? Si può nel pieno della giovinezza? Si può - mi diceva una mamma - quando non si sono sperimentate certe cose belle della vita? Si può dire: “Eccomi, manda me”?
La risposta, Francesco, è che questa disponibilità la danno solo i piccoli. Noi grandi non più e, come ho detto altre volte, noi già ordinati da un anno, dieci, venti, cinquanta, settanta, diciamo: “Per fortuna che questa cosa l’ho fatta allora”, perché se oggi a me, a voi, venisse chiesta la stessa cosa, noi ci tireremmo indietro, perché, Francesco, noi adulti, siamo egoisti. Noi adulti, andando avanti negli anni, a meno che non intraprendiamo decisamente la via della santità, diventiamo calcolatori. Dio ci liberi; vi liberi da noi che diciamo: “Ah, l’amicizia!”. Quante volte gli adolescenti si sentono dire questo dai loro genitori: “Quand’ero giovane anch’io…”. L’amicizia, la gratuità, fare del bene senza motivo, i giovani, i bambini, a volte le comprendono più di quanto non riusciamo a comprenderle noi grandi. Quindi non è un incidente, Annibale, che Isaia si sia buttato avanti quando i grandi si sono tirati indietro. Non è l’eccezione: è la regola, cioè le cose grandi le fanno solo i bambini; le cose belle, le cose entusiasmanti riescono a tirarle fuori solo i giovani. Ecco perché voi giovani che siete qui, a questa celebrazione, siete interpellati, voi che vivete questa grazia meravigliosa che si chiama giovinezza, fatta di grandi ideali, di grandi sogni, di radicalità. Ma questa grazia passa, a meno che voi, in questo momento, non la avvitiate sull’Eterno. Francesco, in questa celebrazione, avvita la sua giovinezza sull’eterna giovinezza di Dio e solo questo gli permetterà di non invecchiare e di non diventare egoista anche lui. Attenti, accogliete questa grazia, spendete questa moneta su mercati di altissimo valore e non sui mercatini rionali; spendete questa grazia della giovinezza per ciò che più vale!

Se ci fate caso, è nuovamente un ragazzo a farsi avanti nel racconto della moltiplicazione dei pani secondo l’evangelista Giovanni. C’era una moltitudine, tanta gente accorreva a Gesù, come stasera, qui, nella nostra Cattedrale, e Gesù guarda le folle con compassione, con amore, e vorrebbe dare dei pani a tutti, ma non li ha. Allora interpella i Suoi discepoli e subito gli economi dicono: “Ci vorrebbe tanto. No, non ce li abbiamo questi soldi”. Ma Andrea riceve una visita strana: un bambino. “C’è qui un ragazzo - dice Andrea - che ha portato pochi pani e pochi pesci. Ma che è questo per tanta gente?”.
Anche qui, come nella Prima Lettura, dove Isaia si lancia, c’è un ragazzo. Pensate che anche Davide era un ragazzo quando c’era da combattere contro il gigante Golia e nessuno si fece avanti, neanche Saul, il re che era in dovere di combattere a favore di Israele: tutti si tirano indietro, anche i prodi, e allora arriva questo ragazzo con una fionda, un ragazzo che ha giocato, perché la vita ce la dobbiamo giocare, e non a dadi, non nei giochi che stanno diventando una malattia in giro, ma per l’unica cosa per cui valga giocarsela.

Come vedete, nelle Letture che Francesco ha scelto - magari non le avrà scelte per questo - c’è questo filo di un ragazzo, di un entusiasmo adolescenziale, di una grazia della giovinezza che permette certe cose che altrimenti sarebbero impossibili.
Pensate all’interrogatorio a cui con un po’ di compassione, tra un po’, sottoporrò il candidato. Ma chi ce la può fare? Sì, lo voglio! Sì, lo voglio! Sì, lo voglio!... E il Vescovo sprofonda nella sua Cattedra, nella sua sedia, dicendo: “Ma questo ragazzo ce la farà?”. La Chiesa pone sulle nostre labbra delle domande impossibili, ma un ragazzo si getta in questa avventura.
Grazie, Francesco, per questa furbizia che hai avuto di avvitare la tua giovinezza, prima che passi, sull’unica cosa che conti: Dio. Il Suo Figlio Gesù, che è venuto a salvarci, chiede mani, come ho detto ieri sera alla Preghiera-Giovani, chiede occhi, chiede cuori, chiede disponibilità, chiede pani. Questi pani siamo noi, questo pane è il ragazzo che è venuto e che ha rinunciato alla sua merenda. I grandi no, gli adulti no! Noi non sappiamo farlo, noi siamo calcolatori, abbiamo bisogno della sicurezza economica, del conto in banca! Il ragazzo no, il ragazzo si butta, ha un impeto di entusiasmo e dice: “Sì, eccomi!”. Porta i pani o è lui questo pane? E Francesco non è un pane che stiamo per consacrare?, perché la Liturgia dell’Ordinazione, cari fratelli e sorelle, è null’altro che una Eucarestia dove anziché il pane e il vino abbiamo un giovane, abbiamo un corpo, del sangue, dei ricordi, degli affetti, dei progetti, abbiamo un uomo: è lui l’agnello condotto al macello questa sera, è lui il pane che sembra piccolo, un panino, ma questo pane si moltiplicherà a dismisura e, tra dieci anni, vent’anni, trent’anni, cinquant’anni, quando il Vescovo che sta parlando sarà morto e non ci sarà neanche la polvere, Francesco starà ancora a distribuire pani. Da questo pane, tanti pani. Ma per far questo, Francesco, c’è bisogno di educare i nostri sentimenti.

Spero che questa mattina non ti sia passato inosservato Sant’Agostino - e neanche a voi, cari presbiteri e diaconi - quando, nella lettura patristica dell’Ufficio delle Letture, ci ha detto: “La vita è un allenamento del desiderio”. Che cosa grande! La vita è un allenamento del desiderio, è una palestra del desiderio, nel senso che la vita ci è data per desiderare, ma si possono desiderare cose dozzinali, si possono desiderare cose terra terra, si può desiderare il cielo, si possono desiderare cose piccole o cose grandi. E il desiderio bisogna allenarlo. Francesco, in tanti anni e fin da bambino, ha cominciato ad allenare questo desiderio nella palestra che è la Chiesa, dove si fanno esercizi per stendere fino allo spasmo i piccoli desideri, perché divengano grandi desideri.
Si può desiderare Dio, cari fratelli e sorelle? I santi lo hanno desiderato e lo desiderano, anche i santi che sono fra noi. E perché bisogna allenare i desideri? Perché i desideri non sono dei semplici strumenti, ma dicono di noi. Non solo dicono della nostra nobiltà o del nostro essere poca cosa, ma anche perché l’oggetto del desiderio ci cambia. Francesco, l’oggetto del desiderio ti cambia. Dovrai insegnare ai tuoi giovani che si diventa ciò che si desidera. Alcuni giovani diventeranno dei motorini, perché desiderano i motorini, come se fosse il massimo dei beni da acquisire. Le signore che desiderano un gatto - mi dispiace per loro - potranno diventare delle gattine. Diventerai ciò che desideri: un oggetto? una grande realtà? E quelli che desiderano Dio? Diventano Dio, diventano come Dio. Francesco, il tuo desiderare d’essere dietro a Gesù, d’essere con Lui, d’essere come Lui, ti rende stasera Gesù.


Concludendo, ti preparo ad una delusione che vivrai, che potrai vivere stasera o tra un anno, tra dieci anni, quando busserai alle porta di Gesù, del Suo cuore…
- Chi è? - risponde Gesù.
- Sono Francesco! Francesco Di Nucci! Sono un presbitero!
- Non ti conosco.
- Gesù non mi conosce…
Allora, Francesco, cercherai nuovi modi per presentarti (Forse Gli è sfuggito che venerdì 17 febbraio - che brutto giorno il Vescovo ha scelto per un’Ordinazione! - sono diventato presbitero) e busserai ancora…
- Chi è?      
- Sono Francesco. Sono cresciuto con l’orizzonte del mare - quelli tra noi che sono nati sul mare, desiderano i grandi orizzonti: Dove c’è il mare, c’è libertà, cantava un po’ di anni fa De Crescenzo, perché non ci sono ostacoli, ma il confine lontanissimo, il baciarsi del mare e del cielo - Sono Francesco! Ho negli occhi il mare di Formia!
E Gesù dirà:
- Non ti conosco.
Allora, angosciato, forse in lacrime, Francesco, cercherai un modo per presentarti, per farti riconoscere e, dopo aver bussato…
- Chi è?
- Sono Checco… - molti non sanno che Francesco, a casa sua, è chiamato Checco, perché quando si è bambini, Francesco è un nome difficile da dire. Quando dicevano a Francesco: “Come ti chiami?”, non potendo dire Francesco, avrà detto Checco, e così gli è rimasto questo nome - Sono il bambino che giocava, il bambino che bussava alle porte della custodia, il bambino che guardava Sant’Erasmo e gli sembrava enorme sulla grande pedana…
Ma anche davanti a questa confessione, a questa foto, a questa identità di Francesco bambino, di Checco, Gesù dirà: Non ti conosco.

Comincerai a piangere, come succede sempre nella preghiera, quando non ci sentiamo capiti. E quando, dopo tante lacrime ribusserai, perché bisogna bussare e ribussare (Bussate e vi sarà aperto - ci ha detto Gesù) e, dall’interno, Gesù chiederà: Chi è?, e tu che non puoi più dire: Sono Don Francesco, sono Francesco con il mare negli occhi, sono Checco, sono il cristologo, alunno della Pontificia Facoltà, ho studiato alla Facoltà del Papa, alla mia Ordinazione c’era anche il Magnifico Rettore…, in un impeto di verità dirai:
- Gesù, non so più chi sono… Non sono Francesco, non sono Don Francesco, non sono il cristologo, non sono Checco…
- E chi sei?
E tu risponderai:
- Sono Tu.
E si aprirà la porta.

L’amore è così: l’amante e l’amato partono da luoghi diversi, con identità diverse, con nomi diversi, con sensibilità diverse, ma poi pian piano si avvicinano, si abbracciano, diventano una cosa sola, si confondono, al punto che l’amante diventa l’amato. Francesco, il prete è questo: è Gesù. Per questo dovrai rispondere: “Sono Tu”. È “sgrammaticato” tutto questo, ma i sacerdoti che forse mi stanno ascoltando - e magari anche voi - sanno che questa sgrammaticatura è quanto mai vera.
Io sono Tu. Sono diventato Tu, perché Tu vivi in me. Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me e questa vita - dice Paolo - che vivo nella carne, io la vivo nel nome e nell’amore di Gesù che ha dato la vita per me. A Lui sia gloria e potenza, qui e ora, nel nostro piccolo oggi, e nei secoli dei secoli. Amen. 

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Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.

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